Umberto Santino, Presidente Centro Siciliano di Documentazione “Giuseppe Impastato”
L’operazione antimafia dei giorni scorsi è stata denominata “Apocalisse” ma gli investigatori per primi hanno dichiarato che non è un sinonimo della fine. La guerra contro la mafia continua e non se ne vede l’epilogo.
L’inchiesta ha fatto emergere aspetti che meritano una riflessione. Per cominciare, una buona notizia: magistrati e forze dell’ordine hanno agito concordemente e questo non è un dato scontato se si pensa ai conflitti ciclicamente reiterati all’interno del palazzo della giustizia e alla storia di carabinieri, poliziotti e guardie di finanza tradizionalmente legati più alla loro divisa che a un impegno comune.
Tra gli arrestati ci sono boss usciti di galera e boss e gregari di nuova leva. C’è un Biondino, fratello dell’autista di Riina; c’è un giovane Palazzotto che, non sapendosi intercettato, ostentava meriti dinastici: un suo prozio nel lontano 1909 ha ucciso Joe Petrosino, su mandato di Vito Cascio Ferro, che godeva della protezione del deputato De Michele Ferrantelli. Il pronipotino va fiero di un avo che ha ucciso uno “sbirro” famoso ed è rimasto impunito. E sui giornali si rievoca quella vicenda che mostra come funzionava la giustizia del tempo, ma era un copione destinato a ripetersi. Non è stato arrestato ma solo raggiunto dal divieto di dimora in città un aspirante consigliere comunale che ha comprato un pacchetto di voti, ma ne ha avuti ben pochi ed stato trombato. Anche la mafia, contrariamente a quanto sostenuto da qualche studioso avventuratosi nel turismo sociologico, fa bidoni. Il mondo delle cosche sembra segnato da uno scadimento del livello, lo sottolinea il procuratore aggiunto Vittorio Teresi. Due mafiosi si prendono a schiaffi sulla pubblica strada e qualcuno ha tentato di arruolare un Rom per la bassa manovalanza, dai danneggiamenti allo spaccio. I picciotti non bastano. Ma anche in passato ci sono state aperture a esterni per il traffico di droga. Si formano nuove famiglie, si fanno accorpamenti; Cosa nostra si scompone e ricompone reagendo alla mareggiata repressiva e il panorama risulta in continuo movimento, rispetto alle rigidità organizzative del paradigma giudiziario vagliato dal maxiprocesso e avallato dalla Cassazione.
Viene fuori il ritratto di una mafia eclettica, insieme oculatamente predatrice e furbescamente intraprendente, capace di diversificare le attività. L’estorsione è sempre in prima fila, a ribadire l’antica signoria territoriale, con “il pagare meno pagare tutti” che prende atto degli effetti dalla crisi: per mungere la mucca bisogna tenerla in vita. Il dominio territoriale è totalizzante e lo spaccato offerto da una recente inchiesta sullo Zen ne è la conferma. La mafia concentra poteri e servizi, controlla la filiera alimentare dall’ortofrutta alla carne, dispensa favori, sfrutta i business illegali e del “vizio”, dalla droga al gioco d’azzardo e alle scommesse. Gli atti di ribellione, nonostante la crescita negli ultimi anni dell’associazionismo antiracket, sono sporadici se non inesistenti. Un’operazione brillante ed efficace, che ha scompaginato mandamenti storici come San Lorenzo, al centro delle cronache giudiziarie già nel XIX secolo, ma bisogna chiedersi come mai, con un’attività repressiva costante e prodiga di successi, il fenomeno mafioso continua a riprodursi. La risposta è che la società siciliana, ma il discorso non vale solo per l’isola, continua a essere mafiogena, cioè presenta caratteri tali da rendere fisiologica la perpetuazione della mafia e dell’illegalità. Alcuni esempi: la gracilità dell’economia legale che induce buona parte della popolazione al ricorso all’illegalità e al crimine come mezzi di mobilità sociale e di acquisizione di ruolo; la crisi, o la scarsa rappresentatività, dei soggetti politico-sindacali (nessuno organizza disoccupati e precari, il popolo degli emarginati dai processi di ulteriore riduzione della base produttiva) e la fragilità del tessuto di società civile e di servizi sociali, infrastrutture indispensabili per creare un senso della vita quotidiana come convivenza comunitaria e non guerra permanente tra clan e tribù; l’illegalità diffusa, sedimentata in cultura ampiamente condivisa, e l’aggressività nei comportamenti abitudinari, in un contesto sociale in cui tutto viene visto e vissuto secondo la logica del tornaconto e dell’interesse personale o di gruppo. E quello che si consuma a livello locale viene ingigantito all’interno del villaggio globale da politiche che fanno lievitare squilibri territoriali e divari sociali e, tramite i proibizionismi, offrono ampi spazi all’accumulazione illegale sempre più coniugata con quella legale.
In questo quadro la repressione non basta. E non credo che bastino neppure le minacce dell’inferno e le scomuniche.Ci vorrebbe un grande progetto di investimenti sociali e questo progetto non c’è. Non ce l’ha l’attuale governo nazionale che non ha tra le priorità in agenda il problema della criminalità e dell’illegalità sistemica; non ce l’ha la giunta regionale in perenne conflitto con i gruppi assembleari; non ce l’hanno le giunte comunali, che anche se ne avessero le intenzioni sarebbero paralizzate da patti di stabilità che ne annullano la possibilità d’azione. Bisognerebbe consolidare e sviluppare contenuti e pratiche, finora precari e minoritari, dell’antimafia che si è sperimentata in questi anni sul piano sociale, ma bisogna sapere che la strada è in salita e che se non si è capaci di modificare il contesto l’Apocalisse rischia di perpetuarsi all’infinito.
Pubblicato su Repubblica Palermo del 27 giugno 2014, con il titolo: Le nuove facce dell’eterna mafia.
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