di Umberto Santino, Presidente del centro siciliano di documentazione Giuseppe Impastato
Certo, si dovrà verificare se quelle parole del medico Tutino sono state pronunciate al telefono in una conversazione con il presidente Crocetta, se quest’ultimo le ha ascoltate senza aver nulla da ridire, ma quello che è già accaduto è abbastanza eloquente e pone un interrogativo di fondo. È stato dato un altro colpo a quella che viene definita “antimafia di facciata” o siamo di fronte all’ultimo di una serie di eventi che pongono problemi a tutta l’antimafia? Che l’antimafia degli ultimi anni sia un fenomeno composito, in cui si ritrovano soggetti diversi, è fin troppo ovvio, ma si riesce a trovare un terreno comune di discussione e di confronto?
I figli di Paolo Borsellino hanno dichiarato che non parteciperanno alle iniziative del 19 luglio, nell’anniversario della strage del 1992, e non ci vuol molto a capire che quelle dichiarazioni mostrano il venir meno di un rapporto di fiducia. Lucia Borsellino si è dimessa da assessore regionale quando ha saputo dell’arresto di Tutino, da anni in ottimi rapporti con Crocetta, e si può pensare che sapesse qualcosa del tenore di quelle conversazioni. Crocetta ha alle spalle gli anni da sindaco di Gela e una dura battaglia, a rischio della vita, contro la mafia della zona, tra le più attive e sanguinarie. Prima ha voluto trasmigrare al Parlamento europeo, poi è stato eletto alla presidenza della regione. E da lì è cominciata una storia fatta di proclami rivoluzionari, scelte discutibili, continui contrasti con il Pd, a cui ha affiancato un partitino personale. Ricordo un intervento su queste pagine in cui parlava della necessità di rapporti “con chi ci stava” per attuare la sua “rivoluzione”, in realtà per tenere in piedi una giunta che ha superato il record delle sostituzioni. Credo che vada ricercata in questa alchimia intesa al mantenimento di un potere incerto e traballante, la dissoluzione di una storia di antimafia, che non si può definire “di facciata”, in una continua riproposizione di una strategia di sopravvivenza che ora minaccia di franare in un pessimo finale. Questa vicenda, che è diversa da quella di altri personaggi che non hanno alle spalle il passato di Crocetta, non riguarda solo la vita politica siciliana, con un’autonomia che ormai è stata, si può dire giustamente, cancellata da una sorta di commissariamento da parte del governo nazionale, ma anche l’antimafia di questi anni. In cui invece di costruire un impegno unitario rispettando le diversità, ha prevalso una competitività che non è lontana dalle lotte di potere che dilaniano la vita politica. E ha prevalso chi può esibire il cognome più prestigioso, una rete relazionale più ampia, una proiezione mediatica più collaudata, una capacità di drenare risorse più efficace. Si è creata così un’antimafia che è e fa spettacolo, ignorando altre voci e altre realtà; un’antimafia che rispecchia, né più ne meno, la realtà culturale e sociale in cui viviamo, e ne ripropone le logiche e le pratiche. Non importa l’essere ma l’apparire, l’analisi e lo studio cedono il posto allo slogan, il progetto strategico viene sotterrato dall’iperattivismo, la partecipazione si tramuta in tifoseria. Ma sarebbe sbagliato dire che è tutto da buttare. C’è un patrimonio faticosamente accumulato che costituisce una ricchezza innegabile, se solo si è capaci di riflettere seriamente e agire di conseguenza. E il fatto che in questi giorni si apre nel quartiere che fu di Falcone e Borsellino un centro per i giovani, è un’iniziativa in cui in tanti possiamo riconoscerci.
La lotta alla mafia non è una novità degli ultimi anni, non parte da zero, e troppo spesso pare di assistere alla reiterazione di un vecchio copione. Ma una cosa dovrebbe essere chiara: se va rigettata ogni forma di ecumenismo, che apre la porta agli immancabili opportunisti, bisognerebbe fare ogni sforzo perché essa sia un impegno collettivo in cui si ritrovano soggetti che fanno delle coerenza tra pratiche e parole una scelta irrinunciabile.
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