Per la Rotta dei Poeti, un incontro speciale, quello con il coordinatore nei campi del Sud del Libano, della ONG Beit Atfal Assumoud, che opera a difesa dei diritti dei rifugiati palestinesi.
Da ragazzo Mahmoud El Joumaa “Abo Wassim” aveva un sogno. Ora di anni ne ha oltre sessanta, ma, dai suoi occhi ridenti di giovane speranzoso capisco che quel sogno è ancora vivo dentro di lui. Lo incontro, insieme a una mia nuova amica, Olga Ambrosanio, presidente della Onlus ULAIA Arte Sud, in un bar rumoroso del quartiere San Lorenzo a Roma.
Ma le voci non mi confondono, è come se non esistessero. Il suo racconto appassiona, coinvolge. La sua storia inizia nel 1952 nel Sud del Libano, a Marjayoun. Nasce lì Abo Wassim, da una famiglia palestinese, la sua è tra quelle emigrate in Libano durante l’esodo del 1948, conosciuto come “nakba”, letteralmente “disastro”, “catastrofe”, “cataclisma”.
A causa della guerra arabo-israeliana, dopo la fondazione dello Stato di Israele, oltre 700 mila arabi palestinesi abbandonarono le loro città, i loro villaggi e, dopo il conflitto, furono espulsi e persero il loro diritto a ritornare nelle proprie terre. Nonostante il diritto al ritorno sia sancitodall’art 11 della risoluzione ONU n. 194 dell’11 dicembre 1948.
Ritornare a casa: un desiderio che, negli anni, si è trasformato in un sogno. Quel sogno con cui quest’uomo dal viso lucente, che mi trovo davanti, è cresciuto. “Quando ero piccolo – racconta – percorrevo oltre 2 km, attraverso i checkpoint, per arrivare a scuola. Vedevo sempre cumuli di gente manifestare, ma non riuscivo a comprendere cosa stesse succedendo…”. Ma poi iniziò a capire e, man mano che le cose gli apparivano più chiare, dentro di lui, germogliava un impulso: “tutti i miei compagni avevano dei progetti, chi voleva fare l’avvocato, chi l’ingegnere, chi il medico, e quando mi chiedevano cosa volessi fare io, per me esisteva solo una risposta: aiutare la mia gente”.
Già, perché, anche se possiede la cittadinanza libanese, Abo Wassim ha sempre continuato a considerarsi palestinese,radici che ha trasmesso anche ai suoi figli: “non dicono mai di essere libanesi, ma con orgoglio dichiarano di essere palestinesi”. La loro vita – come quella del loro padre – è nei campi dei rifugiati, quando escono da lì, si sentono persi, strani.
Per la maggior parte della sua vita, Abo Wassim ha vissuto nei campi insieme alla sua gente. Da lì è iniziata la sua lotta, “la lotta è la mia vita”, dice sorridendo. Il suo lungo viaggio da attivista è iniziato a Tyro. Aveva poco più di 20 anni, quando con il Club Al Houleeh, un’associazione costituita per difendere i diritti dei palestinesi in Libano, prese parte ad una lunga protesta di 44 giorni nei confronti dell’UNRWA, l’Agenzia delle Nazioni Unite costituita proprio nel 1949 per occuparsi del soccorso, dell’occupazione, dell’istruzione, dell’assistenza sanitaria, dei servizi sociali e degli aiuti di emergenza dei rifugiati palestinesi in Medio Oriente.
“In realtà in quel periodo (a ridosso degli anni ’60) – precisa – mancava tutto: l’acqua, le scuole e vivevamo nel fango. La battaglia fu molto dura, ma si diffuse in tutti i campi fino ad arrivare a Beirut, all’ufficio principale dell’UNRWA. Non ci siamo arresi fino a quando non abbiamo ottenuto una ruota che irrogasse acqua, due scuole e materiale edile per togliere il fango e rendere le condizioni di tutti più vivibili”. “Il nostro obiettivo – continua – era ottenere più servizi possibili. Era un dovere verso il nostro popolo”.
Per le sue idee e il suo strenuo attivismo, Abo Wassim è stato arrestato e rinchiuso in prigione diverse volte, ma non ha mai mollato, non se ne è mai andato, nonostante ne avesse la possibilità. “La mia vita, la mia storia, le mie relazioni stanno nel campo – dice – non me ne dimentico mai neanche quando sono lontano”. Nel 1976 i responsabili di Beit Atfal Assumoud, l’associazione di cui ancora oggi fa parte e di cui è coordinatore nei campi del Sud Libano, lo incaricò di seguire programmi rivolti ai bambini. L’attivismo non era permesso, così iniziò a lavorare di nascosto, la sua famiglia gli diede una grossa mano: il padre, era uno ‘sheikh’, il capo religioso del campo, e non si è mai tirato indietro dalla “lotta”, e la madre, durante la guerra civile libanese, attraversava i checkpoint per consegnare i soldi che servivano per aiutare i rifugiati e che rischiavano di essere sottratti dalle milizie sciite del partito di Amal, nascondendoli nel pannolino del figlio più piccolo.
Non ha difficoltà a descrivere le situazioni difficili e pericolose che ha dovuto affrontare. Nel 1986, anno del conflitto tra i guerriglieri dell’OLP e Amal, Abo Wassim, stanato da quest’ultimo per le sue idee, dovette nascondersi sei mesi al buio.
E’ difficile pensare che il suo viso luminoso possa aver conosciuto le tenebre. Anni prima, nel 1982, era scampato per poco all’eccidio di Shatila di civili, palestinesi e sciiti libanesi, compiuto dalle falangi libanesi e dall’Esercito del Libano del Sud , con la complicità dell’esercito israeliano. Eppure quando gli chiedo se ha paura, la sua espressione tranquilla e serena, mi stupisce. “Se qualcosa deve accadere, accadrà… Questa è la vita!”. E poi con ironia aggiunge: “Certo non passo mai due volte dalla stessa strada”. L’importante – pensa Abo Wassim – è lasciare una traccia, un buon esempio di se stessi nel mondo. Di certo un esempio come lui non si trova tutti i giorni, mi sento fortunata di avere la possibilità di incontrarlo e ascoltare la sua storia. Grazie al suo impegno, Assumoud opera dal 1991 anche nel campo rifugiati di Burj al Shemali.
Da allora quello che è stato costruito è davvero impressionante. Sono sorti spazi e servizi sanitari e sociali, dove lavorano assistenti sociali e medici, asili, scuole, una clinica ortopedica, un consultorio per i più giovani, una stanza per la ginecologia, spazi ricreativi e una sala computer chiamata “without border”, “senza confini”.
Senza confini come la musica, un’arte che emoziona il mio interlocutore, lo vedo dai suoi occhi, sempre più ridenti. “Quella della banda di cornamuse è un’altra storia”, precisa. Una storia iniziata con un vecchio strumento sfasciato, che tutto sembrava tranne che una cornamusa. L’aveva comprata con i suoi soldi da un uomo che – secondo quanto racconta – doveva essere un rigattiere. I mezzi della banda, che cominciava ad arricchirsi di musici, all’inizio non erano il massimo del suono e dell’efficienza: materiale arrangiato e poche ance per soffiarci dentro. Ma “soffiando, soffiando”, la passione per questo tipo di strumento è dilagata e ha contagiato tanti ragazzi. Oggi i componenti della banda sono più di cento. Grazie al progetto “Banda senza frontiere” di ULAIA sostenuto dalla Chiesa Valdese, gli strumenti sono aumentati: non solo cornamuse, ma percussioni, violini, chitarre, sassofoni e, quest’anno, è arrivato anche un piano. Dai racconti di Abo Wassim mi sembra di sentirla quella musica, così come sento il vociare dei bambini (più di 3mila nel campo di Burj al Shemali), i giochi, le risa. Si, perché quest’uomo riesce a farmi sentire la “felicità delle piccole cose” di questi ragazzi, ai quali Assumoud cerca di dare un futuro.
Un futuro incerto, che, viste le condizioni attuali, non promette bene. Dall’1 gennaio 2016 l’UNRWA ha modificato le sue politiche in tema di assistenza sanitaria ospedaliera dei palestinesi in Libano: nuove regole, nuovi sistemi di accesso alle strutture sanitarie e tetti massimi per le diverse prestazioni, con lo scopo di “rendere la copertura sanitaria più simile a quella del paese ospitante”. Le associazioni, che si stanno battendo per i diritti di un popolo – già vessato “da alti tassi di povertà, di disoccupazione e di problemi di salute”, dice Abo Wassim – si chiedono come sia pensabile creare un’uniformità di trattamento tra libanesi e palestinesi, visto che quest’ultimi, pur vivendo in Libano da quasi 70 anni, sono discriminati a livello costituzionale nell’esercizio delle maggior parte delle professioni e relegati principalmente a lavori umili. Anche se da questa parte del mondo non stanno arrivando notizie, migliaia di palestinesi in Libano stanno manifestando perché il provvedimento sia revocato. Quale futuro può restare a un popolo già senza diritti, se gli si riduce istruzione e assistenza ospedaliera?
Mi chiedo come possano germogliare sogni in questa realtà… Ma nella forza delle parole di Abo Wassim sento che il sogno in lui è ancora vivo, proprio come quello che aveva da bambino. Gli chiedo qual è il tuo sogno oggi? “Rivedere la mia terra prima di morire”. E i palestinesi ritorneranno a casa un giorno? “Yes, sure, we come back home”.
E, si sa, perché i sogni si realizzino, basta crederci fortemente.
Mimma Scigliano
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