Di Umberto Santino
Due palermitani al vertice delle istituzioni: Sergio Mattarella presidente della Repubblica e Pietro Grasso presidente del Senato. E il sindaco Orlando in un tweet esulta: “Dai lenzuoli alle finestre del 1992 al tricolore del 2015. Missione collettiva compiuta”. Su queste pagine si è aperta una discussione e qualcuno ha osservato che non bisogna scambiare due storie personali con una storia collettiva, che non ci sarebbe stata o comunque non si potrebbe considerare compiuta. Si potrebbe osservare che né Sergio Mattarella né Pietro Grasso rappresentano soltanto una storia individuale. Mattarella si è dedicato all’impegno politico dopo l’assassinio del fratello Piersanti, la cui azione segna una svolta in una storia familiare e politica, e ha mirato all’emarginazione di Ciancimino e a dare un’immagine della Democrazia cristiana che portava il volto di Giuseppe Campione alla presidenza della Regione e di Leoluca Orlando sindaco di Palermo. Eppure un personaggio come Salvo Lima ha continuato a dominare la scena e suoi uomini figuravano nelle giunte “primaverili”. “La Dc, diceva De Mita, si rinnova senza buttare a mare nessuno”. E Aldo Moro, quando la Dc veniva duramente attaccata, si è levato a gridare che si sarebbe opposto a un processo sommario. Andreotti sentenziava: “Il potere logora chi non ce l’ha”, ma può ammorbare chi ce l’ha se è pronto a tutto per mantenerlo. E i cattolici democratici per troppo tempo hanno convissuto con uomini che non erano proprio allievi di La Pira. Finché la balena bianca si è spiaggiata sull’arenile del dopo Muro di Berlino. Pietro Grasso fa parte di una generazione di magistrati, eredi di Cesare Terranova, Rocco Chinnici, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino che, non senza contrasti e contrapposizioni all’interno del “palazzo dei veleni”, hanno svolto un’azione giudiziaria ricca di frutti, dal maxiprocesso ai nostri giorni. Non sono soltanto storie personali, si iscrivono nella storia di partiti, o di correnti, e di gruppi professionali, ma possiamo dire che rappresentano una storia collettiva? A Palermo in questi anni si è sviluppata un’antimafia che ha al suo attivo il lavoro nelle scuole, l’antiracket, l’uso sociale dei beni confiscati, con i limiti che ho più volte rilevato. Nelle scuole si parla troppo di una legalità astratta e formale e l’antimafia è affidata a un insegnante di buona volontà, non è entrata nei programmi e nella scuola quotidiana. L’antiracket coinvolge ancora solo una parte di commercianti e imprenditori (le recenti polemiche ne sono la riprova) e il consumo critico è più sulla carta che nelle pratiche di ogni giorno. L’uso sociale di beni confiscati è mortificato da tempi di assegnazione troppo lunghi e solo poche volte si riesce a trasformare le imprese mafiose in attività produttive legali e a salvare posti di lavoro. E poi c’è la città, impietosamente fotografata dalle statistiche e sempre collocata agli ultimi posti tra le città italiane nelle rilevazioni, discutibili quanto si vuole, del Sole 24 ore. Vogliamo parlare di questa città? Secondo i dati ISTAT la disoccupazione era al 20,3 per cento nel 2004, è stata al 20,7 nel 2013. Quella giovanile supera il 60 per cento. E non si tiene conto che ormai moltissimi non si avventurano nella ricerca di un lavoro che sanno di non poter trovare. Un documento della CGIL del dicembre scorso dava un quadro dell’apparato produttivo prossimo alla desertificazione. Al Cantiere navale, che ha una lunga storia di stentata sopravvivenza, si attende ancora che partano i lavori per il superbacino galleggiante da 80 mila tonnellate che dovrebbe consentire la trasformazione delle navi. I call center con 5.631 operatori sono la maggiore “industria” della città, ma è una bolla che si sta sgonfiando con gli esuberi e i licenziamenti in corso: qui il salario mensile è 700 euro, nell’Est europeo è 200 euro. Il verbo della globalizzazione è “competere” ma in un mondo che globalizza il lavoro precario, sottopagato e non tutelato, per competere efficacemente bisognerebbe istituire la schiavitù. Nell’attesa funge da ammortizzatore il lavoro nero. Le nuove povertà incrementano a vista d’occhio il numero dei senzacasa: un problema che, nonostante le proposte dei comitati, non si vuole affrontare con un piano organico. Quella che è stata definita “la città spugna” (ricordo un libro del Centro Impastato, di Amelia Crisantino) che consumava più di quanto produceva, tenuta in piedi dal denaro pubblicoin grado di reggere un sistema clientelare diffuso, si era trasformata nel corso degli anni ’70-’80 in “metropoli stagnante” ed è diventata sempre più una città a perdere. Sarà l’Europa a inchiodare alla paralisi con i patti di stabilità, ma è un fatto che non si riesce neppure a usare i fondi europei. Anche l’accumulazione illegale, che ormai viene considerata come una voce consistente di un PIL asfittico, non ha più come epicentro Palermo e la Sicilia. Per uscire da questo disastro permanente, la cui cifra più emblematica è il quotidiano vandalismo delle scuole e degli edifici pubblici, ci vorrebbe un progetto capace di raccogliere risorse, convogliare le energie migliori e porre le basi per una storia collettiva, in una comunità condivisa. Un progetto credibile, non l’ennesima antologia di sogni. Tenendo i piedi ben piantati sulla terra e ben sapendo che se due palermitani sono al vertice delle istituzioni, molti loro concittadini hanno perso perfino la speranza di un lavoro che assicuri una vita dignitosa.
Pubblicato su Repubblica – Palermo dell’8 febbraio 2015, con il titolo: Due palermitani al vertice non fanno una Primavera.
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