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Articolo di Evelin Costa

Giorno 18 Dicembre 2015 al Castello di Carini è andato in scena al Terravecchia Festival “Salsi colui. Storie sepolte” della Compagnia teatrale Proskenion con Mariangela Berazzi, Fabio Butera, Nando Brusco, Giovanni Battista Gangemi, Piccola Orchestra Popolare “O. Panzillo” (Bruno Paura, Massimiliano D’Alessandro, Giuseppe Di Iorio, Valeria Di Ielsi). Musiche e arrangiamenti di Bruno Paura, Nando Brusco, Drammaturgia di Maria Ficara, tecnico audio/luci Antonella Bellocchio, Regia di Vincenzo Mercurio.

Uno spettacolo realizzato all’interno del progetto Onda d’urto, sostenuto dalla Fondazione CON IL SUD, che prevede il partenariato tra l’Osservatorio sulla ndrangheta e il Teatro Proskenion di Reggio Calabria, Casa Memoria Felicia e Peppino Impastato e Rete 100 Passi di Cinisi (Pa).

Una collaborazione quella tra le realtà calabresi e siciliane che va avanti ormai dal 2011 con importanti iniziative di recupero dei beni confiscati e di sensibilizzazione sulla memoria delle vittime di mafia. Il racconto musicato rappresentato all’interno del suggestivo Castello è quello della Baronessa di Carini.

Una storia che diventa il pretesto per far riflettere sul potere impunito, sui soprusi nei confronti dei deboli perpetrati da chi non accetta che il potere del più forte venga messo in discussione. Maria Ficara, la drammaturga del Teatro Proskenion, alla fine dello spettacolo mi racconta brevemente come l’idea di questo progetto sia nata anche dalla partecipazione al 9 Maggio a Cinisi e dal ricordo di Peppino Impastato, ucciso da chi voleva imporre il proprio dominio contro la sua scelta di libertà, di ribellione e cambiamento.

Parlando con lei capisco che per una siciliana che vive in Calabria, affrontare vicende come queste, rappresenti una sorta di processo di decostruzione e successiva ricostruzione. Un impegno a portare avanti la memoria di storie ormai collettive, diventate parte di una identità sociale perché tramandate da sempre, come è il racconto dell’uccisione della Baronessa di Carini, ma provando a farlo con una sorta di distacco, con uno sguardo estraneo che arrivi alla sostanza più profonda, ritrovando quegli elementi che rischiano di perdersi, perché introiettati in una sfera più nascosta del sé o lasciati nell’oblio a causa dell’abitudine.

Con questo racconto la drammaturga, all’interno della presentazione dell’opera, scrive: “si vogliono ricordare tutti coloro che hanno perso la vita per mano di chi si è arrogato il diritto divino in nome di una qualsiasi legge del più forte”. Esistono poteri che arrivano ad uccidere per imporre il proprio dominio, poteri, mi dice, di fronte ai quali non fa differenza il genere di appartenenza, si uccide chi vuole stravolgere l’esistente, anche se nel caso della Baronessa di Carini il genere ha una sua importanza, visto che quello narrato è il primo episodio di “femminicidio” che la storia abbia tramandato fino ad oggi.

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Questo, che all’apparenza è un racconto antico, ci parla invece di vicende ancora molto attuali, le spose bambine nei paesi del Terzo Mondo usate come merce di scambio a cui viene ancora oggi imposto il matrimonio, l’uxoricidio, i tanti casi di violenza domestica, i matrimoni combinati tra famiglie mafiose che decidono così di suggellare alleanze convenienti. Non si tratta solo di memoria, si tratta di presente e di interrogativi per il futuro.

La rappresentazione è strutturata in tre parti, la nascita, il matrimonio, la morte. La messa in scena è semplice all’apparenza e proprio per questo riesce ad arrivare all’essenza, è priva di scenografie, abiti di scena particolari, ma solo un palco, i suoi personaggi, alle spalle i musicisti con i loro ritmi ora lenti ora sincopati, scanditi da un tamburo che come un cantastorie ci trasporta all’interno del racconto.

La musica crea atmosfere suggestive. Marce, cantilene, improvvisi sussulti, silenzi e voci che si fanno armonia, concentrazione, sgomento e palpitazione. C’è la culla della neonata baronessa, piccola “femmina” già “vestita da sposa”, a farci riflettere su un destino imposto dalla nascita e poi c’è l’abito da sposa, un abito mai indossato in scena, un abito che danza e che soffre, che diviene simbolo e strumento di tortura, di dolore, di imposizione, di sofferenza, come manette edulcorate per i polsi. Un abito che alla fine subirà una sorta di funerale.

Laura, la baronessa, è l’unica donna in scena, i poteri temporali e spirituali sono rappresentati dagli uomini: chi spia, chi intrappola, chi reclude, chi uccide. Rimane impresso un tango fatto di movenze sensuali e drammatiche, ispirate. Un ballo quasi interiore, solitario e collettivo, che diventa quello di ogni spettatore, uomini e donne, perché nessuno può non sentirsi coinvolto da un racconto antico e moderno che ci parla di oppressi e di oppressori, di cambiamento e di ostinata conservazione dell’esistente, che si insinua in ognuno di noi, sospesi tra paura e voglia di riscatto, complici di silenzi, nutriti di contraddizioni e dubbi, tra urla spesso inascoltate, vittime o ribelli nei confronti di destini immutabili, in una lotta costante tra il fatalismo ed il desiderio di libertà.